Il Salento

Le Origini

E’ molto difficile stabilire, con precisione, a quando risalgono i primi insediamenti umani nella penisola salentina, ma è indiscutibile, comunque, che questa terra fu abitata sin dalla preistoria, come testimoniano resti quali avanzi di focolai, ossa umane e di mammiferi e strumenti in silice rinvenuti nella grotta Romanelli, nella grotta della Zinzulusa e nella grotta dei Diavoli a Porto Badisco. Testimonianze che vengono fatte risalire al Paleolitico Superiore, cioè tra dodici e diecimila anni fa. Le splendide pitture rupestri parietali della Grotta dei Cervi, a porto Badisco, costituiscono una delle forme artistiche più importanti del Neolitico in Europa. Con il popolarsi delle rive del Mediterraneo, compaiono anche nel Salento intorno al IV millennio a.C. i primi villaggi di capanne, soprattutto lungo le coste ioniche, dediti alla lavorazione della ceramica, una prima forma, questa, di civiltà “protourbana”. Tra il III ed il II millennio a.C. la metallurgia rivoluziona l’artigianato neolitico sino a giungere all’età del Bronzo. A questo periodo risalgono i Dolmen ed i Menhir che si trovano nel sud Salento. I Menhir sono delle colonne rettangolari, di forma irregolare, conficcate nella roccia. Più diffusi sono i Dolmen, monumenti formati da lastre di pietra, presenti anche sull’isola di Malta. Si pensa che questi avessero una certa funzione religiosa per i villaggi preistorici della penisola salentina.

L'antichità

Il Salento, a picco nel Mediterraneo, è stata da sempre meta abituale di genti marinare, avventuriere e fuggiasche che, oltre a transitarvi, spesso vi si insediavano stabilmente, introducendo gli usi ed i costumi delle loro terre. I Cretesi furono i primi, tra i popoli del Mediterraneo, a commerciare con gli indigeni salentini, stringendo con essi rapporti culturali e sociali. Successivamente, anche i Micenei giunsero nel Salento, così come racconta Dionigi di Alicarnasso, e fondarono Hiria, che secondo i più sarebbe Oria e secondo altri si sarebbe trattato di una cittadina nei pressi di Patù. Secondo un’antica leggenda, riportata da Erodoto e confermata da Tucidite, furono proprio Cretesi e Micenei, stanziatisi nella Puglia meridionale, a dare vita ai Messapi Japigi. Messapi significa “popolo tra i due mari”. Altre fonti, invece, fanno risalire i Messapi ad una mescolanza tra Cretesi ed Illiri, un popolo, quest’ultimo, proveniente dal Nord dell’Albania. I Messapi fondarono numerose città quali Alezio, Veretum, Vaste, Rudiae e Manduria. Riconobbero da subito la supremazia culturale ed economica dei vicini Greci ed ebbero infatti intensi contatti con le genti dell’Attica e del Peloponneso. Il loro dio della luce Batas, venerato nella grotta della Porcinara, nei dintorni di Leuca, fu successivamente assimilato al dio greco Zeus. La dea Thena, venerata nei pressi di Porto Cesareo, nell’antico villaggio di Scalo di Furno, venne assimilata dai Greci alla dea Artemide (Diana). L’unica traccia letteraria della cultura messapica che la storia ricordi fu lasciata dal poeta Quinto Ennio da Rudiae, mentre quasi niente rimane della lingua messapica. Nel 706 a.C. gli Spartani fondarono Taranto. Archita da Taranto, filosofo pitagorico, governò la città e dette alla polis un momento di particolare sviluppo, riprendendo il dominio sul golfo, al quale però seguì un rapido declino determinato dall’arrivo dei Romani. Dopo alterne vicende nel 272 a.C. Roma sconfisse Taranto ed il suo alleato Pirro, re dell’Epiro, appartenente alla dinastia dei Molossi.Questa sconfitta segna la fine della Magna Grecia e dello splendore delle Polis localizzate tra le province di Lecce e di Taranto. Livio Andronico, simbolo dello sviluppo socio-culturale di Taranto, il primo a tradurre l'Odissea in latino, fu condotto schiavo a Roma, ma riuscì ad affrancarsi grazie alle sue opere come autore teatrale comico e drammatico. Con i Romani, Brindisi divenne il porto più importante dell'Italia meridionale, la porta d'Oriente di Roma a cui venne collegata dalla via Appia, cui seguì la costruzione della via Emilia, la via Gellia e successivamente le vie Traiane ed Adriane. La fondazione di Lecce, l'antica Lupiae, risale all'età imperiale. Sorta a circa 3 Km dalla messapica Rudiae, deve il suo incremento demografico all'imperatore Adriano, che fece costruire il porticciolo di San Cataldo e, quasi certamente, l'anfiteatro, che poteva accogliere circa 20 mila persone. Più piccolo, ma interamente conservato, è il teatro a platea centrale, che poteva ospitare 5 mila persone. In epoca romana l'economia locale divenne prevalentemente agricola, vi furono impiantati uliveti e vigneti.

Mari e Città

Il Salento, con la sua forma allungata, si insinua tra due dei mari più belli dell'intero bacino del Mediterraneo: lo Jonio, che con il Golfo di Taranto, lambisce la costa occidentale, prevalentemente bassa e caratterizzata da un'armoniosa alternanza di scogliere e grandi spiagge, e l'Adriatico che lambisce la costa orientale, ricca di strette insenature, grotte marine e, spesso, caratterizzata da alte scogliere a picco sul mare. Le strette insenature e le alte scogliere sono il paesaggio che si incontra risalendo da Leuca a Otranto. Solo più a nord la costa ridiventa piatta e sabbiosa, con enormi spiagge, meta ambita di turisti e bagnanti. Incastonate sulle rive di questi mari sorgono cittadine bellissime che vantano una storia millenaria; sicuramente le più conosciute per la storia e per la bellezza dei luoghi sono Otranto che, per secoli, ha dato il nome alla provincia, Castro, più a sud, una vera e propria roccaforte posta a difesa delle nostre coste, Leuca, la cittadina più a sud di Puglia ed, infine, Gallipoli, perla dello Jonio, vera e propria città fortezza, il cui nucleo antico sorge, con tutto il castello, su di un'isola collegata alla terraferma da un ponte. Da Finibus Terrae, che si erge come una sentinella sul promontorio Japigio, alla leggendaria "Centopietre", di costruzione megalitica a forma di piccolo tempio, testimonianza da molti ritenuta Messapica, in Patù, o al castello del XV secolo di Salve, alle facciate dei bei palazzi rinascimentali ed i prospetti delle chiese di Alessano, si giunge a Tricase, dove si erge maestosa e sublime la Quercia Vallonea, detta dei "Cento Cavalieri", vero dolmen vivente ed unico esemplare, nella sua specie, in tutto il bacino del Mediterraneo. La ricettività turistica, in questi ultimi anni, è notevolmente aumentata, perché il vasto ed incantevole litorale si è dimostrato in grado di ospitare numerosi turisti che vogliono godere di aria salubre, di mare pulito e di calma, ma anche conoscere il patrimonio paesaggistico ricco di macchia mediterranea (boschi di querce e di lecci, alloro e carrubo, corbezzolo, mortella e poi ancora di erbe e di arbusti aromatici come il timo, il rosmarino, la menta, la salvia, ecc.) di "Pajare", di rifugi come la grotta "Romanelli", la "Zinzulusa", del "Diavolo" o la grotta "Matrona" nella Marina Serra di Tricase, accessibile soltanto dal mare e bella per i riflessi dei raggi solari nell'acqua che si colora di tinte azzurre come nella grotta di Capri. La costa jonica (Felloniche, S. Gregorio, Torre Vado, Torre Pali, ecc.) è invece, un susseguirsi di chilometri di sabbia con un mare dalle tinte cangianti dal blu intenso, al celestino, al verde. Il litorale jonico è stato continuamente migliorato per una ricettività turistica di grandi proporzioni nazionali ed internazionali. Leuca comprende l'antico promontorio Japigio, che divide il mare Jonio da quello Adriatico. L'etimologia del suo nome, dal greco Lucos = bianco, splendente, richiama appunto il caratteristico splendore del suo ridente paesaggio. Esposta a mezzogiorno, è racchiusa tra le ultime propaggini delle Serre salentine, terminanti con punta Ristola e punta Meliso. Spiagge, litorali, marine ed insenature, luoghi ideali per vacanze immerse nella quiete di un paesaggio fiabesco ed incontaminato. Torri solitarie, antiche masserie, mute testimonianze di vita e tradizione, luoghi ideali per scoprire valori antichi e genuine sensazioni. Il Salento, porta d'oriente, inizia a Lecce e finisce proprio sul tacco d'Italia, spostato a Oriente come se un Dio greco, per divertirsi, avesse tirato verso di sé quello stivale. Terra d'Otranto si chiamava il Salento, terra di Normanni. E la citta' che le dava il nome era una piccola potenza marinara affacciata sull'Oriente con i suoi monasteri basiliani come San Nicola di Casole, uno dei luoghi più colti e sofisticati dell'Europa del duecento. Lì si copiavano manoscritti preziosi, lì si parlava greco e latino, lì si approdava da Parigi come da Bisanzio. Il monastero di Casole esercitò dal XI al XV sec. in tutto il Meridione d'Italia una funzione culturale anticipatrice del fenomeno umanistico dell'Italia centro-settentrionale. Qui fiorì un centro operoso di studi che raccolse gli antichi codici greco-latini. Presso lo scriptorium casolano sorse nel 1160, per la prima volta in Europa, la Casa dello Studente, poichè la seconda fiorì a Londra nel 1183. La scuola di Casole divenne il punto d'incontro degli studiosi d'Oriente e d'Occidente, i quali si scambiavano i codici, le esperienze e il sapere. L'itinerario seguito dalle legioni romane per recarsi in Grecia e in Epiro era la via Appia da Roma a Brindisi e il suo successivo prolungamento sino ad Otranto dal cui porto salpavano le navi da guerra come quelle mercantili. Nel IV sec. Costantino creò l'arteria stradale Roma-Otranto-Costantinopoli. Otranto divenne anello di unione tra le due Rome. La lingua greca, la presenza di colonie ebraiche, la posizione geografica e la rete stradale fecero di Otranto una città cosmopolita di traffico, di commercio e di cultura. In tutto il Salento si respira un'aria particolare. Un'aria ferma, fatta anche di presenze mai ben chiarite. Terra di dolmen e di menhir, di grotte preistoriche di straordinaria importanza e di siti archeologici, di luoghi che paiono magici. Terra celebrata dai più rinomati scrittori quali Virgilio (Enea per fondare Roma sbarca nel Salento), Horace Walpole, scrittore inglese del 1700 col romanzo "The castle of Otranto"; terra oggetto di studi storici e antropologici da parte di studiosi stranieri di fama internazionale.

La pizzica

E' difficile dire cosa sia la Pizzica. Giusto per avere un'idea, nel passato era un rituale di cura dal morso della tarantola; un gruppo di uomini con tamburelli, una chitarra, un organetto diatonico suonava di continuo (anche per molti giorni) finchè la tarantata, con un ballo ossessivo e ripetitivo, non esauriva la carica del veleno. Oggi è un rituale per le feste etniche in cui migliaia di persone si incontrano con tamburelli e altri strumenti tipici acustici per suonare e ballare insieme. Antichissima tradizione di musico-danza-terapia salentina, oggi molto praticata a scopo culturale, ricreativo, terapeutico. Fino a pochi decenni fa serviva a curare le 'tarantate', donne (ma anche uomini) che durante i lavori in campagna venivano morse dalla tarantola e impazzivano. Era necessario allora chiamare i suonatori-guaritori che eseguivano questa musica ritmata, ripetitiva, ossessiva che sostiene uno stato di trance. Elemento base e anche simbolo della Pizzica è il tamburello leccese; si suona in modo da dare il ritmo base, deciso, costante e altri battiti in terzine che fanno anche suonare i sonagli. Il fenomeno del tarantismo è molto vasto e complesso, oggetto di studio da decenni di vari ricercatori, etnologi, ma non solo, fra cui Ernesto De Martino e quindi è sicuramente riduttivo descriverlo qua in due righe. Dopo gli anni bui della colonizzazione televisiva, oggi il neo-tarantismo dilaga tra i giovani, in situazioni conviviali (sagre e feste in masserie), con questo ballo semplice e liberatorio (trance-dance) o di corteggiamento. Siamo nel Salento (prov. di Lecce, Oriente d'Italia); è una calda sera d'estate, abbiamo voglia di far quattro salti, di scoprire qualcosa: che facciamo? Andiamo ad una sagra dove fanno la Pizzica. Festa in piazza tra luminarie, bancarelle, persone a passeggio; sentiamo della musica, andiamo. Sentiamo sempre più chiaro un bel ritmo, alziamo il passo... Eccoci! Un cerchio di persone che suonano i tamburelli tipici salentini e altre nel cerchio che ballano... Una volta nel Salento era diffuso il lavoro nei campi; non era raro essere morsi dalla tarantola, che in queste terre arse viveva bene. Le persone pizzicate iniziavano a star male e l'unico modo per guarirle, da almeno un millennio, era suonare, lasciare che ballassero fino a 'guarire'. Nel nostro secolo poi è arrivata la tv, la medicina occidentale, la psichiatria, che tentava di curare i 'malati', ma le ultime scoperte farmacologiche erano solo nuovi intrugli chimici, ben lontani dal 'guarire'. Chi poteva guarire erano i suonatori, persone comuni che nelle occasioni tiravano fuori i loro strumenti. L'orchestrina era formata da tamburelli, una chitarra e una fisarmonica, un violino, che suonavano la Pizzica. Era quindi musica popolare, che chiunque poteva suonare; la musica non era fine a se stessa, ma era terapeutica; in realtà, oltre il morso del ragno, c'era una forte voglia di esprimersi, di liberare un'energia che la comunità opprimeva. Oggi, a distanza di molti anni, il fenomeno ridiventa forte: nel Salento e non solo c'è sempre più voglia di Pizzica: una etnomedicina, un ballo libero che rilassa corpo e mente; un modo per stare insieme ai vecchietti carichi di storia; un modo per riprendersi un modo di esprimersi e divertirsi primitivo; e oltre la musica, il ballo, i canti, un qualcosa di misteriosamente umano, che dalla notte dei tempi si perpetua...

Il salento e la Musica popolare

Sono certo che, per comprendere una terra, la sua cultura ed i costumi del suo popolo è importante ascoltarne la musica. Nell'ultimo periodo i salentini ed, in particolare, i giovani hanno riscoperto la musica dei padri. In pratica ci si è accorti che le sonorità calde e solari proposte dalla musica popolare non hanno nulla da invidiare alla ben più blasonata musica che ha dato le origini al rock moderno. Anzi, il Salento, per la sua posizione centrale nel mediterraneo è, da secoli, il naturale punto d'incontro di culture diverse: le sonorità che ne derivano sono il felice connubio delle antiche musiche greche, bizantine ed arabe che costituiscono, insieme, il nocciolo culturale del bacino del "mare nostrum" di imperiale romana memoria. Tra le musicalità proposte dal folklore, la "Pizzica" è una riscoperta da parte dei giovani del Salento: è, in pratica, l'antenata della tarantella napoletana. Il Salento è, dal canto suo, la patria della cultura del "tarantismo" ovvero la cultura della "taranta". La "taranta" è, in particolare, quel ragno piuttosto grosso che si nasconde negli anfratti e nelle fratture della terra e delle rocce della nostra provincia che, secondo la credenza popolare "morde" o, meglio" "pizzica" (da cui, appunto, il nome dato alla musica...). Secondo le stesse credenze popolari, dal morso della tarantola si guariva solo grazie alla musica: la "pizzica" ed il ballo che da essa ne deriva. Come la tarantella, la "pizzica" nasce come ballo "curativo" del morso inferto dalla "taranta". Tarante e basilischi (di Luisa Mogavero) Un fenomeno molto noto che ha suscitato l'interesse di numerosi studiosi. Il tarantismo, ovvero il caso di persone che, morse da ragni o serpenti, si abbandonano a danze e comportamenti particolari, è legato ad ataviche tradizioni e in certa misura è arrivato fino a oggi. Luigi Chiriatti, musicista e studioso, fornisce nelle sue opere alcune delucidazioni in merito. Diverse le ipotesi sulle origini, riconducibili comunque a tre filoni fondamentali. Il primo è quello che lo fa discendere dal dionisismo: il Salento è infatti terra in cui forte è stata l'influenza dei culti provenienti dalla Grecia. Il secondo è quello che gli attribuisce un'origine autoctona; ipotesi suffragata dagli scavi archeologici di Roca, relativi all'epoca messapica, dove è possibile riscontrare un simbolismo simile a quello del tarantismo. Terza corrente di pensiero è quella di una linea femminile del tarantismo che lo considera come dinamica sociale costruita ad uso e consumo delle donne, con una tradizione che parte dal culto della dea Atena. Tale ipotesi è confermata dal fatto che i simboli associati alla dea sono gli stessi di S. Paolo, protettore dei tarantati. Trascendendo dalla origine precisa, quello che si può riscontrare con certezza è la presenza di una commistione naturale tra paganesimo e cristianesimo. Legato alla credenza nella figura mitologica del basilisco (nome di un rettile favoloso caratteristico per le larghe creste laminari, erettili che porta sul capo e lungo il corpo - i maschi anche sulla coda - le antiche leggende gli attribuivano il potere di uccidere con lo sguardo) e a quella dei ragni velenosi, il morso della taranta (termine con cui si identificano indifferentemente aracnidi velenosi e serpenti) provoca sudorazione, mal di stomaco, palpitazione e spasmi muscolari. Per liberarsi dall'azione venefica del morso, tradizione vuole che il tarantato danzi e canti fino al momento in cui S. Paolo concede la grazia della guarigione. E' proprio per volere di S. Paolo che ogni anno, in corrispondenza della festa del santo, il "pizzicato" ricada sotto l'effetto del veleno e debba compiere lo stesso rituale coreutico-musicale. Avvenuta la concessione della grazia della guarigione, questi deve poi recarsi a Galatina, dove si trova una cappella dedicata al santo. La casistica dei tarantati vede una forte dominanza di donne come soggetti portatori del fenomeno ed il periodo del raccolto estivo come momento privilegiato per il morso. La motivazione, un tempo attribuita al fatto che gli uomini mietevano il grano con le falci mentre le donne raccoglievano le spighe cadute per terra e quindi erano maggiormente esposte al morso dei ragni o dei serpenti, in effetti è da ricercare nella condizione di vita delle donne, chiuse e represse, succubi di un ordine sociale limitante in tutti i settori, soprattutto quello sessuale. Le ricerche condotte da Ernesto De Martino nel 1959 hanno confermato la tesi secondo cui ad alcuni sporadici casi di reale latrodectismo, corrisponde una netta maggioranza di casi in cui il morso è una giustificazione allo scarico di tensioni e frustrazioni individuali. La donna, quindi, è tarantata non perché morsa dal ragno, ma perché depressa e inibita, e trova nel tarantismo la possibilità di uno sfogo che, rientrando in un ordine culturale, protegge la portatrice dal marchio del disordine mentale. Georges Lapassade, nel 1981 in una intervista, diceva: "Il tarantismo è insieme esorcismo e adorcismo. E' un modo ritualizzato di espungere da sé il negativo, ma è anche qualcosa che muove - come troviamo in molte culture pagane - dall'esigenza di integrare il male. Il tarantato si fa intermediario dell'alterità, di un modo interiore che appare popolato di tante voci diverse, fuori da un ordine permanente gerarchico. Entra in una dimensione di mezzo, per cui diventa come lo spazio e la voce dell'alterità, della diversità, di una divinità che parla molte lingue". Il tarantato danza e canta, e il canto è un dialogo con la divinità (S. Paolo, la Madonna), un dialogo diretto in cui il tarantato svolge un ruolo privilegiato rispetto agli astanti, divenendo quasi un semidio o uno sciamano. Sempre nell'intervista citata, Lapassade sosteneva che il tarantismo è parente del coribantismo e non del dionismo, in quanto se il secondo incarna valori positivi di riunione del diverso in unità, di concordanza degli opposti, il primo incarna la diversità, il contrasto, la dissonanza, il rumore. Come nel coribantismo ogni dio rappresenta un mondo di valori e percettivo peculiare che richiama colori e suoni particolari, così il tarantato si rapporta ad un "ragno" che risponde ad un certo nome (viene comunicato dalla taranta stessa nel corso del rito), che preferisce alcuni colori ed un certo ritmo musicale. Durante il rito il coreuta danza, seguendo una coreografia inventata al momento (la taranta lo guida e gli fa "tessere" la danza), secondo un ritmo particolare (e non altri) e si circonda dei colori che preferisce la sua taranta. La musica di accompagnamento al rito, è la "pizzica-tarantata", molto somigliante, nella sua capacità di creare il trans e la dissociazione della personalità, al blues e alla macumba. Da non confondere con la "pizzica-pizzica", eseguita invece solo in occasioni edonistiche e conviviali come feste e matrimoni. La pizzica, come tutti i canti salentini, è metricamente costruita per essere suonata con il tamburello, che ne è anche lo strumento fondamentale ed è un coacervo di simbolismi: il cerchio di legno rappresenta il mondo ma anche il cerchio magico-rituale in cui si svolge il rito; i sonagli di rame che disturbano il suono cadenzato, il disordine, l'irrazionale, il brutto, l'oscuro, ma anche la realtà; e la pelle rappresenta la costante ritmica che serve a reintegrare la taranta nell'ordine delle cose e della vita quotidiana. Oggi i casi di tarantismo sono estremamente sporadici, limitati ai pochi vecchi tarantati, anche se permane, nelle fasce meno acculturate ed in condizioni economiche disagiate, una certa soggezione e timore nei confronti di un fenomeno così difficile da spiegare e su cui anche la scienza, a volte, non sa come pronunciarsi. Una nuova forma di tarantismo si sta sviluppando e dilagando, ed è quello praticato da giovani, soprattutto appartenenti alle fasce medie, che (nelle manifestazioni pubbliche come nelle feste dei santi, dove si esibiscono gruppi che ripropongono il repertorio musicale tradizionale) ricercano la taranta così che li conduca all'individuazione di una identità personale, sociale e culturale e forse anche (come in passato) allo sfogo delle frustrazioni così da rientrare nell'ordine sociale per mezzo di un'altra via. Scientificamente parlando, invece, con il termine "tarantola", si designa oggi il ragno pugliese. Fu coniato nel XIV secolo, quando comparve nel tarantino il fenomeno del "tarantolismo", cioè di quella violenta agitazione psicomotoria ritenuta conseguenza del morso della tarantola. I morsicati - "tarantolati" - entravano in uno stato di agitazione mentale e motoria per cui ballavano in modo esagitato al suono dl musiche vorticose, che furono poi chiamate "tarantelle", capaci di apportare loro un beneficio, secondo le leggende che andavano diffondendosi. Prima di quell'epoca, nel mondo romano, il ragno nostrano si chiamava "phalangium" (dal greco "phalanghion"), da cui l'italiano "falangio" ancor oggi usato (curiosamente anche per la pianta bulbosa ritenuta l'antidoto contro il morso della tarantola). Non c'erano termini per tarantolismo, tarantolati e tarantella perché non esistevano quei fenomeni e la musica corrispondente. Fu nel 1683, che Sanguinetti, un medico, si sottopose volontariamente al morso di una tarantola, ricavandone, solo un arrossamento della parte e dimostrando come il tarantolismo non fosse provocato dal morso del ragno di Taranto. Lo stesso, nel 1742, fece Serrao, medico del re di Napoli, riconfermando l'esperimento di Saguinetti. Non per questo cessò il tarantolismo, che continuò a imperversare nel Meridione, interessando medici, etnologi, psicologi e la Chiesa (si pensò alla possessione diabolica). Dal punto di vista zoologico, la tarantola pugliese fu battezzata dapprima Tarantula apullae e diventò in seguito Lycosa tarentuia per il gioco di priorità e sinonimie che tanto piacciono agii zoologi. E' uno dei ragni più grandi e più belli d'Italia, lungo anche più di 4 cm, ha forme massicce, vellutate e una livrea grigio rossiccia con complicati disegni neri e con forti zampe anellate di giallo e di bruno. Vive sempre nel terreno, immerso nella sua tana che scava da solo, formata da una galleria rettilinea lunga circa 20cm e larga un paio, che svolta bruscamente verso il basso descrivendo un complicato percorso. Tappezza la tana di seta, e per proteggersi dai disturbatori, ne chiude l'apertura con steli, erba disseccata e fuscelli tenuti insieme da una trama di seta. Di giorno si acquatta nella sua tana, al crepuscolo esce a caccia: morde le prede tra capo e collo per ottenere ll più rapido risultato e, una volta morta la vittima, se la succhia tranquillamente nella sua tana, lasciando igienicamente i resti fuori della porta di casa.Durante la stagione degli amori, i maschi assediano le femmine. Una volta concluse le nozze al solito modo dei ragni - senza congiunzione carnale, i maschi raccolgono lo sperma in una chela e lo depositano sulla femmina -i coniugi si separano. La femmina, dopo qualche tempo, deposita le uova fecondate in un bozzolo, le uova si schiudono e centinaia di ragnetti escono dal bozzolo e si arrampicano sulla madre, che se li porta a spasso o a caccia. Con l'approssimarsi dell'inverno, madre e figli si chiudono in casa e attendono la primavera digiunando. Vita da ragni. Il morso della tarantola non è pericoloso per l'uomo perché al massimo produce arrossamento e un po' di dolore.

Gastronomia Salentina

Nel Salento la cucina è come il paesaggio: essenziale. Ma non per questo meno suggestiva per i tanti aromi sapori di pietanze con richiami greci e spagnoli. Papaveri (paparina o fritta) cu le vulie nivere, rape, lumache (sciurmaneddhi) e cozze piccinne, olive nere, grano, lamponi (pampasciuni), pane raffermo, piselli secchi, attinie (urdichelle), pupiddhi, romice, peperoncino, semi di melone (semata), carne di pinna nobile (cozzapinna), granchi (cavure), cardi selvatici, interiora di agnello (gnommareddhi), sangue di maiale (sanghunazzu), puccia, frisella (frasedda), grano in sfoglia fritta (cautunatu) pane in zuppa di siero e scarti di ricotta (fiuruta), ricotta "scante", sciuscella, salamura cotta, spunzali, sciotta de pisce, pane frittu, fave nette e cicore, foje reste, rape all'oiu fattu, futtimariti (frittelle di pastella con capperi, tonno, baccalà, fiuri de cocuzza, acciughe, paparussi allu capaseddu), le rattate (ghiaccio grattugiato condito con sciroppi dolci e colorati), mustazzoli, purcante, purceddhuzzi, paparussi fritti, sarsa fatta a casa (mo nci su le buvatte!), granita de cafè cu la panna, sono solo alcuni degli ingredienti e dei piatti poveri che fanno ricca la cucina salentina. Come si vede si tratta per lo più di pesci umili, di carni di scarto di legumi secchi con i quali, invece, si preparano pietanze eccelse con condimenti mai grassi specie per la pasta fatta in casa con semola di grano duro e scuro. Le sagne 'ncannulate, i minchialeddi, raskateddi, la massa, gli cagghjubbi, conditi con sugo di granchi o di semplice pomodoro o con i legumi sono quanto di più spartano si possa immaginare, di più olimpico come sapori e di meno dannoso alla salute perché l'unico grasso presente nei sughi è quello dell'olio d'oliva. E' con le olive un'altra leccornia: la puccia (vulijata). E' un pane companatico tipico della cucina povera dei contadini, infatti si tratta di pane cotto con olive nere piccole e saporitissime, cipolla, zucchina e, peperoncino. Insomma la sostanziosa merenda del seminatore, del potatore e del pescatore tanto per smorzare la fame con buoni sapori e poi la sera a casa consumare un piatto di "massa cu li ciciri" (pasta a forma di tagliatelle e ceci) d'inverno. E d'estate le friselle (o frise). E' questo un pane biscottato, una sorta di ciambella di grano duro o d'orzo a lunghissima conservazione duro come una pietra e che s'intenerisce dopo essere stato tenuto in acqua per qualche secondo e, restituendo tenerezza, si ripropone con il suo buon sapore di grano da esaltare con pomodori al filo, cetrioli, origano, rucola, cipolla, olio d'oliva, sale e peperoncino. Altri prelibati sapori di mare sono la "scapece", piatto di origine araba l'askipecia e che pare piacesse molto a Federico II di Svevia. A Castrignano lo chiamiamo "a' sarsa": si tratta di alicette (o pupiddhi o vope) fritte messe in botte con una salamoia di sale, aceto, aglio, erbe profumate, pan grattato e zafferano. Squisite e tanto rare che si trovano solo durante le feste popolari. Come pure quando se ne trovano, si consumano crude con una spremuta di limone o fritte le pinne nobili. Per i vini c'è l'imbarazzo della scelta: soprattutto rossi, ma anche rosati, rosatelli, bianchi di Matino, di Salice Salentino, di Galatina, di Nardò, vinosi, freschi, rubino, paglierini, ambrati, secchi, frizzanti, corposi liquorosi, primitivi e novelli. Che altro? (la vendemmia del 1997 è stata la migliore degli ultimi 50 anni.

Sapori mediterranei

Verdure selvatiche, pesci e crostacei sempre freschi (aragoste, ricci, cozze nere, seppie, triglie, calamari, pupiddhi, polpi ecc.) pane e pasta fatti in casa (cazzata, vulijata, cavateddi, massa cu li ciceri o Zuppa di Orazio, sagne ncannulate) carni (Turcinieddhi - involtini di interiora d'agnello, Gnommareddhi - involtini di trippa ripieni di cipolla, formaggio e prezzemolo; salsicce, castrato, sanguinaccio - sangue suino con cervella di maiale o di vitello; Sciurmaneddhi mpannati - famose lumache raccolte dopo le piogge; Cozze Piccinne - lumachine lessate e poi condite con olio, aglio e origano; vino ed oli D.o.c.: Santa Maria di Leuca accoglie il visitatore presentandogli una straordinaria tavola imbandita dalla natura. La scelta dei piatti è un alternarsi di portate di mare e di campagna. Impareggiabili le ricette a base di pesce: da assaggiare le alici, tenere e piccole, vendute dai pescatori appena sbarcati e da gustare il polpo arricciato e cotto in pignata a fuoco lento. Da settembre ricciole, palamite, tonni sono gli ingredienti migliori per un'insuperabile grigliata in riva al mare. Ma l'espressione più alta della cucina leuchese sono le aragoste pescate con le nasse ed il "pupiddhu", saporitissimo pesce azzurro accompagnato dalle linguine ai ricci di mare. Dal mare alla campagna il passo è breve: l'abbondanza di verdure, le migliori d'Italia, coltivate finanche nei terrazzamenti sulla costa quali le cicorie, le cime di rape, i carciofi, le fave, i cavolfiori, le patate zuccherine,gli asparagi di campo, i lampascioni, i pomodori, la paparina (o fritta), è sorprendente e l'olio extravergine d'oliva ne esalta tutta la bontà. Ed ai buongustai non sfuggiranno sicuramente, abbinati ai migliori vini D.o.c. salentini (il rosato da servire a 14° e il rosso a 18/20°), le paste di grano duro fatte in casa (cu llu mannalaturu), il pane cotto nel forno a legna ed i dolciumi di tutte le forme (Cupeta, Cotognata, Mmurfettate - cartellate ripiene di marmellata d'uva), i colori ed i sapori, serviti con il liquore di fico d'India o con il S. Domenico, antica specialità dei frati del convento di S. Domenico